L’abbraccio di sua madre Martina Colombari lo aveva chiuso in una stretta avvolgente, a siglare un patto ininterrotto, mai sciolto, inceppandosi e riavvolgendosi. Ci vuole coraggio a mostrarsi senza filtri, davanti alle telecamere che hanno testimoniato anche quello che forse si sarebbe preferito appartenesse ad altri. Achille Costacurta, oggi, ha 21 anni e ha conosciuto l’esagerazione, la dipendenza, il TSO e lo sbandamento, ma ha deciso di essere presente ad applaudire sua madre. A restituirle quella concretezza edificato sull’essere comunque presenti, per un applauso, per una battuta, per uno show.
La scelta di condividere parte di sé non era affatto ovvia, pur essendo cresciuto sotto i riflettori per via dei suoi genitori. Miss Italia, modella e attrice Martina Colombari, calciatore e poi allenatore ed opinionista suo padre Alessandro. E’ capitato, non lo ha deciso. Ha scelto, però, di fornire una testimonianza più matura e lucida anche di supporto a quanti come lui hanno attraversato condizioni assimilabili e di rispondere, raccontandosi, a Luca Casadei nel nuovo episodio del podcast “One More Time” (OnePodcast).
- Achille Costacurta intervista-confessione
- L’esperienza terribile con le sostanze stupefacenti
- Il tentativo di togliersi la vita
- Il sogno di lavorare con i cavalli e l’ippoterapia
Achille Costacurta intervista-confessione
La puntata è disponibile da oggi, venerdì 31 ottobre, in formato audio su OnePodcast e su tutte le piattaforme streaming, e da martedì 4 novembre in versione video su Spotify e YouTube. Achille Costacurta incomincia dall’ammissione di un’adolescenza complicata tra detenzione, TSO, droghe, rabbia e la diagnosi di ADHD, un tentativo di suicidio, un rapporto difficile con i genitori che non hanno mai conosciuto il cedimento, lo amano. E si sono aperti ad apprendere, imparare con il supporto degli specialisti per rafforzare l’accettazione, un continuo lavorio su di sé e che ha consentito di approdare a una maggiore consapevolezza.

“In terza media non mi ammettono all’esame per il comportamento. Al liceo dopo 3 mesi mi sbattono fuori. Non mi avevano ancora diagnosticato l’ADHD, lo scopro a maggio dell’anno scorso perché andando in questa clinica in Svizzera, dopo aver esagerato con le sostanze, loro avevano già capito tutto senza farmi fare i test: “tu ti volevi autocurare con la droga”. Il fatto che ho la fissa con il numero 5 e col numero 9, ho 500 progetti in testa che voglio fare. Il mio cervello non produce abbastanza dopamina. Io adesso prendo il Ritalin, nel primo mese che l’ho preso leggevo un libro in due, tre ore, scrivevo 40/50 pagine al computer in tre ore, robe che non riuscivo a fare prima. Da quando i miei genitori hanno fatto anche loro un corso genitoriale per l’ADHD, il nostro rapporto è cambiato da così a così. Prima in casa quando litigavamo, io andavo fuori, spaccavo porte. Da lì non è mai più successo perché loro ora sanno come dirmi un “no””.
L’esperienza terribile con le sostanze stupefacenti
Sulla droga e i TSO, è scarno. Ma ogni dichiarazione è un colpo profondo, che scuote chi ascolta o che si appresta a leggere quanto visto, provato e anche sofferto da un ragazzo giovanissimo che ha sfiorato l’autodistruzione:
“Ho iniziato a fumare a 13 anni. Al compleanno dei miei 18 anni ho provato la mescalina. Una volta ho avuto una colluttazione con la polizia. Ero sotto effetto e ho fatto il matto su un taxi. Il poliziotto arriva, mi tira un pugno in faccia, io ero allucinato quindi l’ho spaccato di legnate. Lì dopo poco mi fanno il primo TSO, me ne hanno fatti 7”. I dettagli sono cruenti, crudeli e la profondità di quella condizione è evidente, nel suo racconto. “Quando sono andato in clinica in Svizzera mi hanno detto: “se fossi stato fuori altri 10 giorni saresti morto” perché hai il cuore a riposo a 150 battiti (..). La Svizzera da così a così, ti dicono: “Tu sei qua e puoi scegliere, se ti vuoi drogare c’è la strada, puoi andare e puoi fare quello che vuoi, vai. Se tu invece hai bisogno di una mano, vieni qua e noi ti aiutiamo”. Mi hanno fatto cambiar vita, grazie a loro io non mi drogo più. Il loro approccio ti fa capire veramente le cose importanti. Li ringrazierò per tutta la vita”.
Il tentativo di togliersi la vita
Il passaggio più toccante, di questa intervista-confessione di Achille verte sul tentativo di togliersi la vita quando il male di vivere era parso dominante, inarrestabile. Non è la prima volta che trapela questo dolore, il tentativo estremo di chiudere l’esistenza in modo irreversibile, ma la ricostruzione di Costacurta mette davanti interrogativi profondi.
“Ho iniziato a spacciare fumo. Arrivata la quarantena, tutti chiusi in casa, fumo non ce n’è. A me riusciva ad arrivare comunque tramite dei canali, avevo creato una rete e mi hanno arrestato a 15 anni e mezzo. Quindi faccio il mio primo compleanno dei 16 anni lì, centro penale comunità terapeutica. Non ce la facevo più, aspetto la notte quando c’è un solo operatore ed entro in ufficio, lo distraggo e prendo le chiavi dell’infermeria. Lo chiudo dentro l’ufficio, lui con le sue chiavi riesce a uscire. Io però nel frattempo ero già in infermeria e prendo tutto il metadone che c’era, sette boccettine, mi chiudo in bagno e le bevo tutte, volevo suicidarmi. Arrivano i pompieri e sfondano la porta, poi l’ambulanza. Nessun medico ha saputo dirmi come io sia ancora vivo perché l’equivalente di sette boccettine di metadone sono sui 35, 42 grammi di eroina. La gente muore con un grammo”.
I suoi genitori hanno anteposto la sua salute a tutto il resto, adesso Achille lo riconosce e ne ha piena coscienza grazie a quello che ha costruito attorno alla diagnosi, al percorso di autostima e l’ausilio degli specialisti. “Mia mamma ha pianto tanto. Mio papà l’unica volta che gli ho visto scendere una lacrima è stato quando mi hanno proprio portato via. Quando mi avevano fatto il depot, io tutti i giorni chiedevo di andare a fare l’eutanasia perché non avevo più emozioni e volevo morire. E lì l’ho visto piangere”.
“Il giorno che esco dalla clinica mi viene a prendere mio papà. C’era un doppio arcobaleno. Io li scoppio a piangere dalla gioia, dalla felicità, abbraccio fortissimo mio papà e gli dico: “hai visto che ce l’abbiamo fatta, ho smesso, e ce la farò e continuerò. Ce lo sta dicendo pure il cielo. C’è il doppio arcobaleno ti rendi conto?”. È stato uno dei momenti più fighi. Anzi, dopo chiamerò mio padre per ricordarglielo”.
Il sogno di lavorare con i cavalli e l’ippoterapia
Achille Costacurta si osserva, si studia ma è un equilibrio su cui lavora ogni attimo, perché le conquiste immobili cedono all’avvento delle nuove prove, di nuove prove. “Sono fiero di me, del fatto che sono riuscito ad avere una certa consapevolezza. Tutti i miei traumi sono riuscito a buttarli giù. Non ho filtri, non mi vergogno di quello che mi è successo perché alla fine sono una persona normale. Ho imparato a non dimenticare quei traumi ma a farne tesoro. Avendo provato gli eccessi, ora ci sono poche cose che mi fanno veramente felice. Perché le sostanze stupefacenti ti fanno provare queste emozioni che non ritrovi. L’unica cosa che mi fa avere le farfalle nello stomaco come l’amore sono i ragazzi con la sindrome di down. Perché non l’hanno scelto loro. Non è una persona che si è drogata e adesso è in mezzo alla strada. È una persona che non ha scelto di nascere così. Io li devo aiutare. È una delle poche cose che mi fa essere troppo felice. Il mio obiettivo è creare centri con i miei ideali, con i cavalli per fare ippoterapia, viaggi che voglio far fare, day hospital che voglio creare, devono essere davanti al mare, ogni ragazzo deve avere il suo labrador che lo porta a fare il bagno, farli venire anche dall’Africa perché nella religione vudù se sei albino, se sei autistico, se sei down ti ammazzano”.
